A cura dell’avv. Maria Antonella Mascaro
La premessa deve essere ricercata nel Decreto Semplificazioni 2021 (DL n. 77/2021 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 219 del 31.05.2021), rubricato “Governance del Piano nazionale di rilancio e resilienza e prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure”.
Se ben si ricorda, il decreto prevedeva che potranno essere agevolati con il superbonus i lavori in collegi e convitti, ospizi, conventi e seminari, caserme, case di cura e ospedali con e senza fine di lucro (categorie catastali B/1, B/2 e D/4).
Le condizioni poste riguardano che dette strutture svolgano attività di prestazione di servizi socio-sanitari e assistenziali, e i cui membri del Consiglio di Amministrazione non percepiscano alcun compenso o indennità di carica e che siano in possesso delle tipologie di immobili indicati, in particolare: B/1: collegi, orfanotrofi, conventi, seminari, ricoveri, ospizi, caserme; B/2: ospedali e case di cura senza fine di lucro; D/4: ospedali e case di cura con fine di lucro.
Il meccanismo della cessione del credito ha generato una serie di denunce penali che hanno condotto a sequestri per parecchi milioni di euro anche nei confronti di terzi, cosiddetti colossi, che hanno accolto la cessione del credito forse senza troppi controlli.
Il caso e la sentenza
L’importante sentenza della Corte di Cassazione, III sezione penale del 1 dicembre 2022 n. 45558, ha affrontato il delicato tema del sequestro del credito d’imposta al cessionario del c.d. superbonus edilizio del 110%.
La decisione della Suprema Corte prende il via dal ricorso presentato dal Pubblico Ministero contro il provvedimento di dissequestro a favore di Poste Italiane Spa, di circa sette milioni di euro di credito di imposta che l’ente cessionario aveva acquisito da un soggetto che, come accertato in seguito dall’Agenzia delle Entrate, non aveva mai eseguito gli interventi edilizi oggetto del bonus.
Si ricorda che il meccanismo del c.d. “superbonus del 110%” è stato così formulato dalla legge: oltre alla detrazione della spesa sostenuta per le tipologie di interventi edilizi le alternative sono le seguenti: l’avente diritto può optare per lo sconto in fattura, cioè uno sconto che i fornitori recuperano usufruendo di un credito d’imposta di pari importo dei beni e servizi prestati, oppure, in alternativa, può cedere a terzi il proprio credito d’imposta. Ed è quest’ultimo il caso che ci occupa.Solitamente tale cessione avviene a favore di istituti bancari o similari (come nel caso di specie), ma la normativa vigente non pone particolari limiti, posto che il credito può essere oggetto di successive cessioni da parte del primo cessionario.
Il quesito giuridico al quale la Corte Suprema è stata chiamata a rispondere attiene alla possibilità di sequestrare e poi confiscare il credito d’imposta, anche per equivalente (equivalente dell’importo relativo al credito) allorché lo stesso sia entrato nel patrimonio di un terzo.Ovviamente tutto ciò deriva, a monte, dalla sussistenza, quantomeno del fumus dell’esistenza di un reato commesso dal titolare originario del bonus che non ha compiuto le opere edili oggetto del bonus e dunque può essere indagato per frode fiscale o truffa ai danni dello Stato, a seconda delle modalità del fatto.
La sentenza prende in considerazione una serie di punti e detta alcuni interessanti principi.Innanzitutto il credito d’imposta ceduto non sorge a titolo originario a favore del cessionario, bensì a titolo derivato, di conseguenza i vizi originari del credito si trasmettono anche al terzo che lo abbia ricevuto. Se il credito era inesistente, tale rimane anche dopo il suo trasferimento. Di conseguenza il credito d’imposta derivante dall’emissione di false fatture deve considerarsi inesistente e non spettante.
In queste circostanze dunque il credito d’imposta è sequestrabile e confiscabile a determinate condizioni. Il cessionario nel caso in esame è stato qualificato dalla Corte Suprema come persona offesa del reato di truffa perpetrato in suo danno attraverso la cessione del credito, oltre che terzo in buona fede, ma la buona fede è comprensiva di due componenti. Una è costituita dall’assenza di vantaggio conseguente all’illecito penale e, in questo caso, non è possibile affermare che questo non ci fosse, poiché il credito portato in compensazione costituisce certamente un profitto, ossia un vantaggio economico-finanziario; l’altra componente concerne l’effettiva buona fede che non sussiste solo per il fatto di non aver concorso nel reato, ma quando non sia ravvisabile alcuna negligenza nel comportamento che ha determinato l’acquisizione del credito. L’ente cessionario, agli effetti della normativa antiriciclaggio, è una pubblica amministrazione e, quindi soggetta alle disposizioni del D.lgs 231/07. Orbene, proprio in applicazione di questa normativa, l’UIF (Unità per l’Informazione Italiana) aveva preventivamente emesso provvedimenti che mettevano in guardia le pubbliche amministrazioni dai pericoli concernenti possibili operazioni illecite collegate al “Superbonus 110%”.
Conclusioni
La sentenza elenca tutti quei provvedimenti e mette in evidenza come gli stessi avessero evidenziato le anomalie più ricorrenti, tra le quali proprio quelle occorse nel caso in esame. Si tratta allora di verificare se gli accertamenti dell’ente cessionario siano stati sufficientemente diligenti, in relazione alle indicazioni dell’UIF e cronologicamente compatibili con l’asserzione della propria buona fede.
Le verifiche antiriciclaggio non sufficientemente istruite prima dell’acquisizione del credito d’imposta impediscono all’ente di proclamare la propria buona fede.
Ma attenzione il sequestro e la confisca obbligatoria ricadrebbero sul cedente e sul suo patrimonio.