a cura dell’avv. Maria Antonella Mascaro
In Francia la riforma sul sistema pensionistico ha, letteralmente, scatenato i cittadini che sono scesi anche troppo rumorosamente in piazza. Dure le opposizioni contro il Presidente della Repubblica che è dovuto intervenire con una procedura parlamentare, desueta per il sistema francese, per evitare una probabile sfiducia. Si ricorda che la Francia è una Repubblica semipresidenziale, cioè, un mix fra quella pura sul modello statunitense e quella italiana che è di tipo parlamentare. Dunque il Presidente in Francia deve avere la fiducia del parlamento.
Il rifiuto espresso sulla riforma è netto e rende palpabile la necessità di una revisione del sistema fino ad ora adottato soprattutto per la sua incidenza negativa sul bilancio dello stato.
Il Paese è infatti alle prese con un debito pubblico in costante crescita ed una forte incidenza della spesa pensionistica sul PIL (circa il 16% nel 2020).
Stando alle statistiche la Francia si posiziona al vertice della classifica per spesa per protezione sociale in rapporto al PIL (35,2% contro una media EU 27 del 30,4%) e all’ottavo posto in rapporto alla spesa pubblica (57,32 %).
Se, da un lato, la finalità potrebbe richiamare alla mente il sacrificio richiesto agli italiani dall’ex ministro Fornero, dall’altro, il vero motivo delle proteste non sembrerebbe essere legato solamente all’aumento dell’età pensionabile.
L’attuale configurazione pensionistica è stata una delle conquiste sociali, forse la più importante, presa dal Presidente Francois Mitteran, con la determinazione della pensione a sessanta anni. In seguito salita, con molte difficolta a 62 anni. Questa decisione puntava sull’evidenza di un ruolo egualitario dello Stato e così è stata mantenuta nel tempo. Le previste modifiche non sono accettate da 7 francesi su 10. L’attuale sistema base della previdenza francese prevede la ripartizione cioè un criterio che funziona come un’assicurazione collettiva. I lavoratori ed i datori di lavoro finanziano le casse degli enti pensionistici versando contributi prelevati direttamente dal loro reddito e tutte queste somme, messe in comune, servono a pagare le pensioni. La pensione non viene quindi finanziata con le somme versate dal diretto interessato, durante la sua carriera lavorativa, ma viene prelevata dalla cassa comune alimentata dalla popolazione attiva. I contributi sono calcolati in base ad aliquote fissate a livello nazionale e sono in parte a carico del datore di lavoro, in parte del lavoratore.
L’aliquota minima è fissata al 37,5 %. L’anzianità assicurativa, inclusi i periodi equiparati, permette di determinare l’aliquota di liquidazione della pensione tra l’età pensionabile e l’età di attribuzione automatica dell’aliquota piena (tra i 62 e i 67 anni per i nati dopo il 1° gennaio 1955).
La solidarietà tra le generazioni è la regola base. Il regime generale riposa su una gerarchia di enti nazionali, regionali e locali, strutturati a seconda della natura del rischio, gestiti pariteticamente e posti sotto il controllo dei Ministeri incaricati della sicurezza sociale (Ministero delle Solidarietà e della Salute e Ministero dell’Economia e delle Finanze).
I tre principali sono il regime generale dei dipendenti del settore privato (80% dei pensionati), la Mutua sociale agricola (Msa) per i lavoratori agricoli e il regime delle professioni indipendenti. I regimi speciali riguardano i pubblici dipendenti, le aziende e stabilimenti pubblici (tra cui Banca di Francia, compagnia ferroviaria Sncf, metro parigina Ratp, ecc), ma, anche, le professioni autonome (avvocati) oltre al fondo di solidarietà per gli anziani. Oltre al regime base, i dipendenti hanno l’obbligo di versare contributi a previdenze complementari, e durante la pensione percepiranno un secondo trattamento previdenziale. Si tratta di un sistema molto complesso in quanto ogni cassa funziona in base alle proprie regole. Generalmente sono basate su sistemi a punteggio, convertiti in euro, il cui importo si somma a quello delle pensioni di base.
Ogni 10 euro di contributi versati equivalgono ad un punto. Oltre i 10 mila euro di stipendio lordo mensile non ci sono ulteriori diritti ai fini pensionistici.
Punti bonus potrebbero essere assegnati in determinate situazioni: disoccupazione, maternità, accompagno persona anziana o con disabilità. Regole diverse sono in vigore in base al regime pensionistico di appartenenza. Chi ha fatto lavori molto stancanti può andare in pensione a 60 anni. Chi ha lavorato nell’esercito, la polizia, nelle carceri o come vigile del fuoco può ritirarsi a 57 anni, in alcuni casi anche a 52. Ma per usufruire del massimo livello pensionistico, chi è nato dal 1958 in poi deve aver versato contributi per almeno 41 anni e 9 mesi e per quanti nati dal 1973 in poi il minimo è 43 anni.
La pensione col massimo livello retributivo è automatica a partire da 67 anni per quanti sono nati dal 1955 in poi.
Con la riforma l’età legale rimarrà invariata a 62 anni, ma per aver diritto al massimo livello pensionistico bisognerà aspettare i 64 anni, criterio che si applicherà per chi è nato dal 1963 in poi. Età poi destinata ad evolvere ulteriormente in base all’aspettativa di vita.
Per il calcolo della pensione vengono incrociati diversi fattori. Tra questi c’è la durata di attività, calcolata trimestralmente, il livello di reddito percepito durante i 25 anni migliori della carriera lavorativa o dei 6 ultimi mesi prima di andare in pensione per pubblici dipendenti e regimi speciali. Per ottenere una pensione “a tariffa intera” il periodo contributivo richiesto passerà dagli attuali 42 anni ai 43 anni entro il 2027. La pensione minima sarà fissata all’85% del salario minimo netto, cioè quasi 1.200 euro al mese a partire da quest’anno. L’importo dell’assegno sociale ammonta a € 632,17 al mese. Nuove regole di calcolo sono previste più favorevoli per i genitori e a chi si occupa di una persona anziana o con handicap.
Diversamente in Italia si andrà in pensione in media a 71 anni di età, anche 72 secondo le indicazioni ribadite nei decreti del governo, soprattutto se parliamo delle professioni sanitarie.
In un regime cosiddetto contributivo, la mira è evitare pensionamenti “giovani”.
Inoltre, l’incertezza finanziaria ed economica, nonché l’aumento del costo della vita potrebbero indurre il governo a rinviare le riforme utili a migliorare il sistema pensionistico.
Ritardare le riforme necessarie metterebbe a rischio il benessere dei pensionati attuali e futuri.
Sistemi pensionistici solidi saranno importanti per proteggere gli standard di vita della nostra popolazione che invecchia.
Si dovrà, quindi, continuare a sviluppare e rafforzare un sistema che combini diversi tipi di regimi pensionistici che si integrino a vicenda e diversifichino i rischi.