La mobilità sanitaria riguarda quasi 1,5 milioni di cittadini

Gli italiani spendono “di tasca propria” in salute per prestazioni e farmaci in tutto o in parte (pagamento di
un ticket) non coperti dal SSN annualmente quasi 40 miliardi di euro, raggiungendo una quota del Pil
superiore al 2%. A ciò si aggiunga l’intensificarsi della “mobilità sanitaria”, generato dalla necessità di
rivolgersi a strutture pubbliche di altre Regioni, per ottenere prestazioni del SSN di fatto non erogabili nel
territorio di residenza, a causa dei deficit strutturali della sanità regionale di appartenenza.
È possibile analizzare i dati riferibili sia al peso economico che le singole Regioni sostengono, quando un
loro cittadino ottiene una prestazione sanitaria in un’altra Regione (che per questo viene rimborsata), sia a
quanto “incassano” per prestazioni svolte a vantaggio di cittadini di diversa provenienza, sia ai numeri reali
dei pazienti “esportati” ed “importati”. Le Regioni con un saldo attivo sono Lombardia, Veneto, Emilia-
Romagna e Toscana, e quelle che invece depauperano il loro budget sanitario sono quasi tutte le rimanenti
Regioni centro-meridionali.
Inoltre, gli importi versati dalle Regioni che “cedono” pazienti a quelle in grado di erogare le prestazioni,
determinano una ulteriore difficoltà in budget sanitari già compressi dai piani di rientro. All’opposto, le
Regioni che erogano molte prestazioni a cittadini non residenti, possono contare su di un over-budget che
rende possibili investimenti in strutture e personale, di cui beneficiano in primo luogo i cittadini residenti.
In termini di efficienza la “forbice” tra alcune Regioni del Nord e quelle del Centro-Sud, inevitabilmente si
allarga. Analizzando i dati pre-CoviD perché più attendibili come campione, ai due estremi, nel 2018 la
Regione Lombardia ha riscontrato un saldo positivo di quasi 809 milioni di euro, mentre la Regione Calabria
un deficit di quasi 320 milioni di euro e la Regione Campania di più di 302 milioni. Anche da ciò derivano
impatti quali quello del mancato turnover del personale medico e infermieristico. Solo per fare un esempio,
nel quinquennio 2012-2017 in Lombardia il turnover del personale medico e infermieristico ha raggiunto
rispettivamente il 100% e il 102%, mentre in Campania si è fermato al 69% e al 57%.
Oltre all’appesantimento dei “conti economici” delle singole sanità regionali, la “mobilità sanitaria” fa
emergere il fenomeno rappresentato da quasi 1,5 milioni di cittadini che per curarsi hanno dovuto
rivolgersi al di fuori della regione di residenza.
Se l’accesso alle prestazioni sanitarie risulta altamente difforme, per quello che riguarda la tempistica delle
erogazioni il Paese soffre invece di una patologia quasi omogeneamente diffusa: quella delle lunghissime
liste d’attesa. La difficoltà di accedere a cure mediche gratuitamente e in tempi accettabili si somma a
quella già segnalata in rapporto alla difficoltà di trovare o sostituire nel proprio territorio il medico di
medicina generale. Le serie storiche delle indagini campionarie dell’Eurispes evidenziano un trend da cui
emerge che un quarto delle famiglie italiane denuncia difficoltà economiche relativamente alle prestazioni
sanitarie. Relativamente al 2022 questa difficoltà si conferma maggiore soprattutto per i cittadini delle
regioni meridionali (28,5%) e delle Isole (30,5%). Inoltre, un terzo dei cittadini (33,3%) afferma di aver
dovuto rinunciare a prestazioni e/o interventi sanitari per indisponibilità delle strutture sanitarie. E questo
andamento si conferma e aumenta anche nel 2023.
La realtà fin qui descritta confligge con quanto “sulla carta” il SSN dovrebbe assicurare attraverso il
progressivo ampliamento dei LEA, ovvero dei Livelli Essenziali di Assistenza. Si tratta di un vero e proprio
paradosso, secondo cui per un verso si indicano e si ampliamo obiettivi prestazionali “garantiti”
uniformemente per tutto il territorio nazionale, mentre per l’altro i deficit e i tempi di attesa delle
prestazioni si appesantiscono, in particolare in alcune aree del Paese.

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