A cura dell’avv. Maria Antonella Mascaro
Da molti anni è iniziato un attacco alla cosiddetta Riforma Fornero del 2011. Una riforma prodotta, dal governo Monti, in un momento di grave crisi economia ed anche istituzionale, della nostra nazione. Il governo Monti nato su iniziativa del Presidente della Repubblica, come governo “tecnico”, doveva evitare all’Italia l’insolvenza dei conti pubblici.
All’epoca, lo Stato non era sicuro di potersi finanziare, erano in dubbio i pagamenti delle pensioni e i pagamenti degli stipendi dei dipendenti pubblici. C’era una pressione enorme dei mercati finanziari e lo spread era arrivato a 574 punti.
Quello di Monti fu il governo delle scelte impopolari e dell’austerità, delle riforme economiche, fiscali e previdenziali che l’Unione Europea chiedeva all’Italia e che i partiti non erano stati in grado di attuare.
In questo contesto, si approvarono la riforma delle pensioni di Elsa Fornero (contenuta nel decreto “Salva Italia”, la prima norma introdotta dal governo Monti), dell’Imu sulla prima casa, del pareggio di bilancio in Costituzione, delle liberalizzazioni, e della razionalizzazione della spesa pubblica.
L’azione più significativa fu attuata dalla riforma Fornero, che aiutò di più la sostenibilità dei conti pubblici a lungo termine.
Questa riforma, che è stata poi politicamente catalogata come un disastro, prevedeva di porre il limite alle pensioni di vecchiaia a 67 anni rispetto ai 65 anni delle norme precedenti, e quelle anticipate al limite di 41/42 anni e dieci mesi. Questi nuovi traguardi pensionistici erano collegati alla diversa aspettativa di vita, sempre crescente e ad obiettivi di contribuzione sempre più elevati
Nel corso dei governi successivi, si sono prodotti nuovi interventi finalizzati a mitigare il così detto “scalone” previsto dalla legge. Sono state in particolare introdotte le così dette quote, già presenti nel passato, con cui sarebbe stato possibile andare in pensione, anticipata, sommando l’età anagrafica agli anni di contribuzione.
Questo metodo è diventato la bandiera di molti critici della riforma, in particolare della Lega.
Il risultato è di aver avuto, per il 2019-2021, “Quota 100”, – 62 anni d’età e 38 anni di contribuzione – di cui, però, hanno usufruito solamente 380 mila lavoratori rispetto ai 990 mila previsti e costata 12 miliardi di Euro. A seguire, quota 102, – 64 anni d’età e 38 anni di contribuzione – stabilita dal Governo Draghi, con 8.000 uscite rispetto alle 16.000 previste.
Ciò che è diventato lo standard previdenziale della Lega è il numero “41”, cioè gli anni di contribuzione per uscire dal lavoro. Dapprima, e sino a pochi giorni fa, indicato come limite contributivo indipendentemente dall’età, ma poi mitigato per necessità di bilancio, con la previsione anche di un limite d’età minimo, previsto a 62 anni.
E’ in sostanza questa la nuova Quota 103. Quota di cui potrebbero beneficiare circa 45 mila lavoratori nel primo anno con una spesa intorno al miliardo di euro. La legge Fornero non si era di molto allontanata dai 41 anni indicati dalla Lega, prevedendo, per il pensionamento anticipato, 41 e 10 mesi per le donne e 42 anni e 10 mesi per gli uomini, senza alcun limite d’età.
Resta, poi, insoluto e ancora mai apertamente affrontato dalle varie mini-riforme succedutesi dalla Legge Fornero ad oggi, il problema dei 67 anni per la pensione di vecchiaia per coloro che non potranno vantare almeno 41 anni di contribuzione. Il tema è importante perchè questi futuri pensionati si trovano adesso non considerati dalle varie quote e perché l’impatto della loro condizione potrebbe incidere sul precario equilibrio del sistema previdenziale.