A cura dell’Avv. Maria Antonella Mascaro
Su sollecitazione di una nostra iscritta, diamo conto della recente sentenza della Corte Costituzionale (n. 113 del 6-9 maggio 2022, pubblicata su GU n.19 del 11-5-2022), in tema di requisiti di accreditamento e obbligo di stipulare contratti di lavoro dipendente fra professionisti sanitari e strutture accreditate.
La Corte Costituzionale ha dichiarato, su rinvio del Consiglio di Stato, sez. III, adito da due strutture accreditate laziali, l’incostituzionalità dell’art. 9, comma 1, della Legge regionale del Lazio 28 dicembre 2018, n. 13 (Legge di stabilita’ regionale 2019).
Tale norma prevedeva che il personale sanitario dedicato ai servizi alla persona delle strutture sanitarie private accreditate deve avere con la struttura un rapporto di lavoro dipendente regolato dal contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) sottoscritto dalle associazioni maggiormente rappresentative nel settore sanitario.
Già nel 2016, una analoga disposizione del Commissario ad acta alla sanità della Regione Lazio, n. 376 del 17 novembre 2016, era stata oggetto di annullamento da parte del Consiglio di Stato con la sentenza n. 3303 del 2019.
Ed appunto, nel presente ricorso alla Corte Costituzionale si dubita che anche l’attuale norma impugnata sia compatibile con gli articoli 3 e 41 della Costituzione, in quanto comprimerebbe eccessivamente l’autonomia privata delle strutture sanitarie accreditate in termini di organizzazione dell’impresa, oltre ad essere lesiva del più generale principio di ragionevolezza e proporzionalità, introducendo un ulteriore e irragionevole criterio di accreditamento non collegato direttamente alla tutela della salute.
Nell’assetto attuale, l’accreditamento è strettamente connesso anche alle scelte programmatorie che governano la funzione di contingentamento e di selezione all’ingresso nel Servizio sanitario nazionale (SSN) e più specificamente regionale. Sussiste, dunque, una sfera di discrezionalità dell’amministrazione nella concessione dell’accreditamento, in considerazione della valutazione della rispondenza e adeguatezza agli obiettivi della programmazione.
In questo contesto, si colloca, dunque, l’art. 9 della legge reg. Lazio n. 13 del 2018, attinto dalle questioni di legittimità costituzionale in esame.
La Corte precisa che se da un lato questa previsione incide sull’organizzazione sanitaria, che è parte integrante della materia costituita dalla «tutela della salute», riconducibile alla competenza concorrente regionale, dall’altro essa ricade sull’iniziativa economica privata, che, come enuncia il primo comma dell’art. 41 Cost., è oggetto di una libertà garantita.
Le possibili limitazioni di tale libertà devono porsi, anche nel caso di attività privata integrata in un servizio pubblico, all’esito del bilanciamento tra lo svolgimento dell’iniziativa economica privata e la salvaguardia dell’utilità sociale e devono rispondere, in ogni caso, ai principi di ragionevolezza e proporzionalità (art. 3, primo comma, Cost.).
Nella fattispecie in esame, la disposizione censurata (art. 9, comma 1, della legge reg. Lazio n. 13 del 2018) costituisce una specificazione dei «requisiti ulteriori», necessari, oltre i «requisiti minimi», affinchè le strutture sanitarie private possano conseguire l’accreditamento. Essa detta una prescrizione tanto puntuale e rigida, da tradursi in una penetrante limitazione al potere organizzativo dell’imprenditore, titolare della struttura che ambisce all’accreditamento, e da risultare così non coerente con il fine sociale della tutela della salute e non proporzionata al suo perseguimento.
Non si vede perché, in altri termini, si debba ricorrere soltanto ai contratti indicati nella norma regionale impugnata per vedere assicurata al meglio la tutela della salute.
Sarebbero infatti ugualmente ipotizzabili come idonei a tal fine, chiarisce la Corte, soprattutto per alcune figure professionali di alta qualificazione nel settore sanitario, rapporti di lavoro autonomo regolati dal Codice civile. Nè possono escludersi rapporti di collaborazione che si concretizzino in prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente (art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015), dal che deriva anche una censura di irragionevolezza della norma in esame.
Conclusivamente, con la disposizione dichiarata incostituzionale, il legislatore regionale ha tentato di operare surrettiziamente una politica sociale e di occupazione a danno della imprenditorialità sanitaria privata in funzione pubblica, con una prescrizione rigida e generalizzata che avrebbe introdotto un requisito ulteriore per l’accreditamento non coerente con la tutela della salute pubblica.