A cura dell’avv. Maria Antonella Mascaro
Da decenni i pensionati sono stati posti nel mirino dei conti pubblici ed individuati come una sorta di salvadanaio pubblico.
Anche per la legge di bilancio del 2023 ad essi sono stati dedicati solamente interventi penalizzanti e restrittivi.
L’interesse di tutti i pensionati e in particolar modo di quelli titolari di trattamenti previdenziali modesti è la conservazione del potere di acquisto delle somme percepite, da cui deriva in modo consequenziale il diritto ad una prestazione previdenziale adeguata.
Tale diritto, costituzionalmente riconosciuto, risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie, peraltro, non specificate nel provvedimento in questione.
La perequazione correlata all’inflazione permetterebbe un ristoro dei trattamenti in essere, nella sua nuova formulazione, invece, riduce fortemente quanto previsto per il 2023, da norme che progressivamente tentavano di ricomporre un diritto troppo spesso sacrificato.
Così sono stati incisi i diritti fondamentali connessi al rapporto previdenziale, fondati sui parametri costituzionali della proporzionalità del trattamento di quiescenza, inteso quale retribuzione differita (art. 36, primo comma, Cost.) e dell’adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.), da intendersi quale espressione del principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. e al contempo attuazione del principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 Cost.
Al riguardo, già una norma che limitava i trattamenti di quiescenza è stata in passato ritenuta costituzionalmente illegittima (Corte Cost., Sent. n. 70/2015).
I pensionati interessati a queste norme sono oltre tre milioni, cioè quelli che ricevono un trattamento superiore a quattro volte il minimo Inps: circa 2.100 euro lordi al mese.
Per i sindacati è stata sufficiente la previsione di una crescita maggiorata al 120 % per le pensioni minime: che si traduce in appena 46 euro in più. Mentre per i così detti pensionati d’oro si è passati da un incremento dal 7,3 % al 2,55 %, percentuale questa ultima che si applica alle pensioni superiori a 5.000 euro lordi.
Il provvedimento del Governo Meloni, però, prevede, cosa che pochi hanno rilevato, che la tagliola sulle indicizzazioni non valga solo per il 2023 ma sia estesa anche al 2024. Va, poi considerato che, i pur modesti incrementi, non vengono attivati con riferimento agli scaglioni, così come previsto dall’Irpef, ma in funzione della fascia in cui l’importo totale della pensione si colloca.
Per cui l’incremento del 2,55 %, previsto per le pensioni di 5.000 euro mensili lordi, incide sulla cifra considerata nel suo complesso e non si applicano, quindi, per gli scaglioni minori, gli indici incrementali maggiori.
Va considerato come ultimo effetto negativo che le restrizioni si cumulano nel tempo, dal momento che l’indicizzazione del futuro sarà applicata ad importi più bassi di quanto sarebbe stato dovuto.
La perdita è quindi strutturale e crescente impedendo qualsiasi ristoro a fronte di una inflazione galoppante che falcidia fortemente proprio i pensionati che non hanno altro possibile recupero.