a cura dell’avv. Maria Antonella Mascaro
La Terza Sezione della Cassazione Penale si è pronunciata sul tema dell’inesistenza di responsabilità del medico nel caso di diagnosi non tempestiva, con la sentenza n. 47685/2023, evidenziando sempre di più la tendenza verso cui sta andando anche il legislatore e dunque non contemplando come errore, o meglio, come colpa, una diagnosi tardiva. Il principio che la giurisprudenza di legittimità vuole evidenziare è che una diagnosi tempestiva non è detto allunghi o migliori la vita del paziente.
La sentenza interviene in un momento storico nel quale molto si sta facendo per combattere la cosiddetta medicina difensiva che non permette, sostanzialmente, quasi più al medico di curare per paura di incorrere nella giustizia.
Con questa ulteriore pronuncia si sentenzia che, anche in presenza di un atto colposo, si debba distinguere l’atto, dalla causa effettiva che ha procurato il decesso del paziente. Dunque la guarigione o il prolungamento della vita di un paziente non sempre dipendono dalla tempestività della diagnosi.
Il caso ha riguardato due medici assolti in primo e secondo grado dai giudici territoriali con la formula più ampia del fatto non sussiste dal reato di omicidio colposo.
La parte civile ha proposto ricorso per Cassazione, dolendosi soprattutto della mancanza di motivazione nei precedenti gradi di giudizio dal momento che non erano stati valutati gli effetti che sarebbero potuti derivare dall’adozione di un’adeguata terapia causata dalla tardività della diagnosi. Il motivo principale ruota attorno alla questione del rapporto tra la tempistica della diagnosi e la cosiddetta “perdita di chance”.
Il paziente era deceduto a seguito di un tumore, secondo i ricorrenti diagnosticato tardivamente. La parte civile costituita, infatti, sostiene che il prolungamento o il miglioramento della vita del paziente sarebbero state differenti, soprattutto in relazione alla perdita di chance, se fossero state valutate in modo adeguato, le conseguenze derivanti da una diagnosi precoce seguita da una terapia tempestiva.
Nella motivazione della Corte si legge: “pur potendosi affermare che l’atteggiamento sostenuto dall’equipe dell’ospedale appaia agli occhi di taluno come inutilmente attendista, potendosi intervenire anche senza una biopsia confermativa, con chirurgia resettiva, appare accettabile e condivisibile anche un atteggiamento più prudente, che vede il chirurgo attendere la conferma diagnostica prima di intervenire cruentemente con tutti i rischi che questo comunque comporta”
La Corte di legittimità riporta la motivazione della Corte di Appello territoriale, sottolineando, come il Giudice avesse attentamente richiamato le affermazioni dei periti, i quali avevano osservato che la terapia da somministrare dipendesse dallo stadio del tumore e non dal volume della massa, con la conseguenza che la sua crescita non avesse alterato le opzioni terapeutiche che sarebbero state identiche anche con una diagnosi precoce.
Dunque, sulla scorta dei principi che regolano i reati omissivi impropri, la Cassazione spiega che il Giudice del merito aveva correttamente valutato se vi fosse stata o meno una colpevole omissione dei medici nel disporre gli opportuni e tempestivi accertamenti diagnostici volti ad individuare la patologia di cui era affetto il paziente, valutazione da svolgersi, peraltro, alla luce dei parametri, anche questi richiamati dai periti,della probabilità logica e della credibilità razionale, già fissati nella lontana sentenza Franzese.
Alla luce di tutto ciò che è stato esposto la Corte ha rigettato il ricorso.
Il tema dei processi intentati nei confronti dei medici è un tema con il quale ci si confronta da anni e, fortunatamente, si è assistito ad un notevole cambiamento di rotta dalla sentenza Franzese in avanti, riconducendo le varie istanze verso una giusta direzione che eviti ripercussioni sulla serenità e sulla reputazione professionale di tutti gli operatori sanitari. Va da sé il fatto che, come anche in questo caso più insidioso, la maggior parte delle azioni giudiziarie, sia penali sia civili, promosse contro i professionisti della sanità, terminano con la totale assoluzione di questi ultimi.
Ciò che, invece, va maggiormente regolamentato è la possibilità di agire in sede civile contro le strutture, altro fenomeno che andrebbe limitato, comunque normato con un adeguato sistema che eviti la sovrabbondanza di contenzioso.