La responsabilità medica e il nesso causale

a cura dell’avv. Maria Antonella Mascaro

La giurisprudenza della Suprema Corte ha affrontato il tema del nesso causale nella responsabilità medica infinite volte.

L’affermazione della responsabilità medica è possibile nel caso in cui sussista un nesso causale fra la lesione della salute psicofisica del paziente e la condotta del sanitario, in uno con una inefficienza della struttura sanitaria.

Il medico e la struttura rispondono del loro cattivo operato nel caso in cui la loro condotta sia stata caratterizzata da illiceità, ovvero, sia stata posta in essere, violando una norma giuridica.

Quando, infatti, da una condotta colposa è derivato un danno alla salute del paziente il medico è chiamato a rispondere del proprio operato risarcendo il danneggiato.

La colpa può andare a riguardare la negligenza, l’imprudenza e l’imperizia dell’operatore sanitario.

L’accertamento di una condotta colposa non è autonomamente sufficiente a ricondurre l’operato del medico ad una responsabilità.

Difatti, al fine di valutare il rapporto fra evento e danno, è indispensabile il rapporto eziologico fra l’operato del medico, in relazione all’intervento subìto da un paziente, e la morte di questo.

Dunque ricorre il tema del rapporto trilaterale fra paziente, medico e struttura in cui il medico presta l’opera (tema più volte affrontato, tanto nei comunicati, quanto nei commenti alle sentenze).  

La responsabilità contrattuale del medico sussiste nel caso in cui vi sia un rapporto, preesistente, fra il medico ed una struttura ospedaliera.

Detta responsabilità, disciplinata dall’art.1218 c.c., fa gravare sulla parte ritenuta inadempiente, l’onere della prova positiva dell’esatto adempimento della prestazione dovuta.  

Ciò non può accadere per la prova dell’esistenza del nesso causale, in quanto il legame eziologico tra la condotta e l’evento rappresenta la condizione imprescindibile per l’attribuibilità del fatto illecito (e dunque del danno) al soggetto: in altre parole, la modificazione del mondo esterno (l’evento) può essere imputata ad una persona solo se la stessa sia conseguenza della sua condotta. Di conseguenza l’onere probatorio, come previsto dall’art. 2697 cc grava su colui il quale intenda far valere in giudizio un diritto, o su chi eccepisca la modifica o l’estinzione di un diritto vantato da altri.

Pertanto, è onere dell’attore, paziente danneggiato, dimostrare l’esistenza del nesso causale fra la condotta del medico ed il danno di cui viene richiesto il risarcimento onere che va assolto dimostrando con qualsiasi mezzo di prova che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del più probabile che non, la causa del danno.

Quando nel corso del giudizio di primo grado si è fatto ricorso alla perizia d’ufficio dello specialista medico-legale che esclude che la morte del paziente sia dovuta a colpa del sanitario, ma che la stessa sia intervenuta per note complicanze dell’intervento chirurgico, prevedibili ma non prevenibili, peraltro conosciute dal paziente e confermate da un consenso informato sottoscritto dal medesimo, non è ravvisabile alcuna responsabilità contrattuale, dunque non è possibile un risarcimento.

Quanto alla perdita di chance, di cui si è parlato in altro articolo, andrà ricordato che l’esclusione di qualsiasi profilo di condotta colposa da parte del medico, non consente di prendere in considerazione la possibilità di soluzioni alternative che avrebbero consentito un prolungamento e/o una migliore qualità della vita del paziente. Infatti, va ricordato, che anche il danno da perdita di chance presuppone l’esistenza di una condotta colposa, commissiva od omissiva, che integri la causa del pregiudizio.

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