a cura dell’avv. Maria Antonella Mascaro
Ha destato un certo clamore una sentenza emessa dalla Corte di Appello di Venezia (n. 2579/2025) in tema di responsabilità sanitaria a causa del suicidio di un paziente ricoverato in reparto psichiatrico.
Il caso
Nel dicembre 2020, gli eredi di un paziente ricoverato nel reparto di psichiatria di una struttura ospedaliera, in Veneto, intentavano causa per il risarcimento del danno contro l’azienda ospedaliera, ritenendo che l’omessa vigilanza durante il ricovero avesse favorito il suicidio. Il paziente, infatti, aveva subito un danno permancanza di ossigeno al cervello, morendo dopo alcuni mesi di coma. In primo grado, il Tribunale aveva riconosciuto un nesso tra la disponibilità di materiale idoneo al suicidio presente nel reparto e il danno subito, evidenziando, però, che la condotta del personale sanitario non era censurabile.
Le motivazioni della Corte di Appello
Diversamente la Corte territoriale ha ritenuto sussistere la responsabilità della struttura ospedaliera quando il paziente, già noto per precedenti tentativi di suicidio, riesca a raggiungere lo scopo, utilizzando mezzi presenti nella stanza di degenza, quali la cinghia della tapparella, in violazione dei protocolli di sicurezza.
Da un punto di vista civilistico, il caso si inserisce nell’inquadramento dell’art. 2043 del codice civile e cioè della responsabilità per fatto illecito e dell’art. 1218 c.c. che individua la responsabilità del debitore, estendendola alla struttura quando l’organizzazione o le carenze ambientali contribuiscono al danno.
Dunque la responsabilità della struttura, secondo le motivazioni della Corte territoriale, si configura per non aver adempiuto al dovere di protezione e di sicurezza del paziente come imposto dai protocolli aziendali per quanto concerne le misure di prevenzione del suicidio in ospedale che impongono adeguatezza per impedire ai pazienti autolesionisti l’uso di cinture, corde o altri oggetti, potenzialmente utilizzabili.
Tuttavia, la responsabilità dell’azienda sanitaria è di grado inferiore, in quanto certamente concorre con quella del paziente stesso, il quale, pur versando in stato depressivo, mantiene la capacità di autodeterminazione e pone in essere volontariamente l’atto suicidario.
Nel caso de quo, la responsabilità del paziente è stata quantificata nella misura dell’ottanta per cento, in quanto l’intento e la determinazione al suicidio sono partiti dal soggetto agente, rimanendo a carico della struttura sanitaria il residuo venti per cento, in ordine al fatto della mancata vigilanza nell’eliminare qualsiasi oggetto utilizzabile per il gesto insano.
La Corte di appello ha ritenuto il risarcimento del danno non patrimoniale da lesione del rapporto parentale, che non abbisogna della convivenza con la vittima.
La quantificazione del danno è operata secondo le tabelle del Tribunale di Milano, attribuendo punteggi differenziati in base all’età dei congiunti, alla qualità della relazione affettiva e alla convivenza, con riduzione proporzionale alla quota di corresponsabilità della vittima nell’evento lesivo.
La responsabilità civile del medico psichiatra si integra con quella della struttura nella quale presta la sua attività lavorativa, pertanto è di fondamentale importanza conoscere i confini tra colpa individuale e organizzativa, così come tra responsabilità civile e penale. Altrettanto rilevante è la verifica periodica delle coperture assicurative di responsabilità professionale e tutela legale.