Crisi delle specializzazioni in Medicina, defiscalizzazione e lavoro

Si è molto dibattuto sulla riforma dell’accesso alla Facoltà di Medicina e Chirurgia quale risolutore del problema della carenza dei medici nel nostro paese e al contempo si è rilevato da più parti: politiche, sindacali, associazioniste, che molto probabilmente la soluzione non stia nell’accesso, ma nel sistema della formazione medica post-laurea. Ci si riferisce ai dati sulla mancata assegnazione di un numero crescente di borse di specializzazione, in particolare nella medicina di emergenza e di urgenza, ma anche nella chirurgia, oncologia e molte altre specializzazioni che semplicemente rimangono vacanti, fotografando una crisi strutturale che non può essere ignorata.

I dati sono notevoli se si pensa che nel 2023, su 855 borse messe a bando per medicina di emergenza, ne sono state assegnate solo 266 e si stima che ogni anno oltre il 10% degli specializzandi abbandoni il percorso formativo, con un buco economico per lo Stato di circa quaranta milioni di euro annui.

Dunque il vero problema non può risiedere nell’accesso, peraltro reso complicato da un sistema che deve ancora essere testato, in quanto l’accesso vero e proprio è rimandato al superamento degli esami-test nelle tre materie fondamentali, ma nelle scuole di specializzazione e nella loro attrattività, in considerazione del fatto che la medicina di urgenza ed emergenza non viene più scelta per l’alto rischio che lo specializzando non si sente di correre.

Il nodo da sciogliere, dunque, è la riforma delle scuole di specializzazione. Ormai è assodato che su questa tematica si gioca il futuro della sanità pubblica e privata accreditata.

Esistono varie proposte fra le quali si vorrebbe trasformare la borsa di studio in un contratto di formazione-lavoro, che garantisca ai medici in formazione gli stessi diritti normativi, economici e previdenziali dei colleghi stabilizzati.

 Un altro aspetto è rappresentato dall’equità tra professionisti sanitari, in quanto la formazione specialistica dei medici è finanziata dallo Stato, mentre quella di altri profili sanitari, quali: odontoiatri, veterinari, farmacisti, biologi, chimici, fisici, psicologi, resta a carico delle famiglie. 

Nell’ambito di questa esigenza del potenziamento della medicina di urgenza in uno dei tanti disegni di legge presentati al Senato ci sarebbe quella di prevedere un’aliquota fiscale agevolata per chi lavora in prima linea nei Pronto soccorso italiani. Si tratterebbe dell’introduzione di un’imposta sostitutiva pari al 15% sui redditi da lavoro dipendente per medici e personale sanitario assegnati stabilmente ai Dipartimenti di Emergenza-Urgenza e Accettazione (DEA) di I e II livello. Dunque, colo i quali lavorino nei reparti di Pronto Soccorso del SSN potrebbero beneficiare di un trattamento fiscale più favorevole.

Il provvedimento comporterebbe un onere annuo stimato in 100 milioni di euro, a partire dal 2026. La copertura dovrebbe essere prevista mediante una riduzione dei fondi speciali nel bilancio del Ministero dell’Economia per il triennio 2026-2029.

Il tutto si inserisce in un contesto più ampio di riforma del SSN, che comprende la revisione del numero chiuso per l’accesso a Medicina, incentivi per ridurre le liste d’attesa, premi alla produttività, orari flessibili e digitalizzazione dei servizi. Il problema è che non è certa la copertura e quand’anche lo fosse non è certo che basterebbe a fermare l’esodo dai Pronto Soccorsi, non solo da parte dei medici, ma ancor più da parte degli infermieri.

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