a cura dell’avv. Maria Antonella Mascaro
Con la sentenza n. 10143/2023 la quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione ha definitivamente condannato una società ai sensi del d.lgs 231/2001 (Responsabilità amministrativa degli enti) pur senza essere stato individuato l’autore del delitto colposo relativo ad un infortunio sul lavoro.
Come è noto, il presupposto della responsabilità ex D.lgs 231/01 è costituito dall’esistenza di un legame tra l’autore del reato e l’ente. L’illecito penale deve essere commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente, ma da una persona che sia legata da un rapporto di rappresentanza o di dipendenza con lo stesso, ma l’art. 8 del decreto prevede la possibilità della condanna della società anche nel caso in cui un autore del reato non sia stato identificato.
Per quanto possa sembrare strano in diverse occasioni la Suprema Corte si è espressa con precedenti che facevano riferimento proprio all’art. 8 citato, dal momento che l’esistenza di questa previsione normativa si spiega proprio grazie al fatto che quando è difficile individuare un responsabile, proprio nei delitti colposi, l’ente deve comunque risponderne.
Tuttavia, elaborando questo principio, si potrebbe cadere nel pericolo di attribuire sempre una responsabilità all’ente, quando fiumi di parole e numerose sentenze hanno spiegato che non si tratta mai di una responsabilità oggettiva: infatti il pericolo sarebbe proprio questo.
Le problematiche applicative sono numerose, in quanto, in primo luogo si deve comprendere quale è la motivazione per cui l’autore del reato sia rimasto ignoto; in secondo luogo se il rapporto che lo lega alla società sia di natura apicale o di dipendente, poiché cambierebbe l’onere della prova. Infatti, se il reato presupposto è commesso da un soggetto dipendente, è l’accusa che deve fornire la prova del difetto organizzativo dell’ente, diversamente in caso di dirigente o apicale che deve fornire la prova della sua innocenza. Tutto ciò conta, in quanto se l’autore del reato fosse esterno o comunque estraneo alla società, la responsabilità, anche del solo ente, non esisterebbe.
Il principio elaborato in alcune sentenze di legittimità del passato era dettato dal fatto che nell’ipotesi di mancata identificazione dell’autore del reato, la responsabilità della società poteva essere affermata, ai sensi dell’art. 8 D.Lgs. 231/2001, solo quando fosse, comunque, individuabile a quale categoria, tra quelle indicate, agli artt. 6 e 7 del medesimo decreto, appartenesse l’autore del fatto, e fosse, altresì, possibile escludere che questi abbia agito nel suo esclusivo interesse.
Nel caso esaminato dalla Corte, i due dirigenti della società indagati e poi assolti con la formula del “fatto non sussiste” erano stati ritenuti privi della posizione di garanzia necessaria per l’attribuzione del reato colposo, posizione che non era stata accertata in capo a nessun altro pur essendo stato commesso il reato.
Situazione alquanto paradossale e comunque degna di considerazione, dal momento che un ragionamento logico giuridico esatto può condurre alla responsabilità di un ente quando la formula assolutoria sia quella di “non aver commesso il fatto” che implicitamente significa che il fatto c’è, ma non è stato commesso dai due imputati, diversamente dalla formula “fatto non sussiste” che evidenzierebbe l’inesistenza del reato.
La Corte, nel caso in esame, devia sulla mancanza di posizione di garanzia, ma le perplessità rimangono, poiché si assiste, nelle recenti pronunce, ad un allargamento a macchia d’olio della colpa in organizzazione per la quale il rischio, per nulla confortante, è quello di trovare il modo di condannare se non sempre, molto spesso, la società.