COMUNICATO 24 NOVEMBRE 2025
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 26826 del 6 ottobre 2025 si è espressa in maniera chiara su una questione molto delicata ossia quella del risarcimento dovuto ai genitori quando la morte del feto è conseguenza di un errore medico. Ciò può accadere in situazioni che possono verificarsi per mancata assistenza: un esempio di malpractice è il caso in cui la madre non riceva il monitoraggio necessario in ospedale; oppure per ritardo negli interventi come il caso del ritardo ingiustificato nel praticare un parto cesareo, anche se la situazione lo avrebbe richiesto. La pronuncia in esame è rilevante dal punto di vista della qualificazione giuridica del risarcimento danni che spetterebbe ai genitori. Ed invero, la Cassazione interviene esprimendosi nella valutazione del pregiudizio subito dai genitori, superando definitivamente la tesi secondo cui si tratterebbe di un danno meramente potenziale da malasanità. La questione centrale affrontata dalla Suprema Corte riguarda proprio la natura del pregiudizio subito dai genitori. Nelle precedenti pronunce (Cass. 22859/2020 e Cass. 12717/2015), alcuni giudici avevano qualificato il danno da perdita del feto come lesione di un rapporto “solo potenziale”, giustificando così una liquidazione inferiore rispetto ai parametri tabellari ordinari. Con questa pronuncia i Giudici di legittimità chiariscono che tale impostazione è errata poiché non terrebbe in debita considerazione l’esistenza del legame genitori-figlio. Il rapporto tra genitori e concepito non è infatti qualcosa che si instaura solo dopo la nascita: esso esiste già durante la gravidanza, si sviluppa progressivamente e rappresenta una dimensione affettiva concreta e presente. Ne consegue che secondo gli Ermellini quando un errore medico provocherebbe la morte del frutto del concepimento, ciò che viene leso non è un rapporto ipotetico o futuro, ma un legame familiare già pienamente in essere. La Corte afferma espressamente che si tratta di una vera e propria perdita del rapporto parentale, con tutte le conseguenze risarcitorie che ne derivano. Nel caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte una giovane donna, giunta al termine delle settimane di gestazione, era stata ricoverata con chiari segni di sofferenza fetale. Nonostante le evidenze cliniche e le ripetute richieste di intervento, i sanitari avevano tuttavia omesso di procedere tempestivamente con l’esecuzione del parto cesareo, che è stato eseguito solo la mattina successiva. Alla nascita il feto era però ormai privo di vita per grave asfissia perinatale. Da questa importante pronuncia derivano conseguenze su come va determinato il danno: cambiano, infatti, i parametri e si applicano le Tabelle di Milano riconoscendo la natura di danno biologico da perdita. La Corte ribadisce, dunque, che il danno va qualificato nella sua duplice dimensione: da un lato la sofferenza morale soggettiva (dolore e lacerazione interiore) e dall’altro nel danno dinamico relazionale (alterazioni di abitudini e percorsi di vita). In caso di feto nato morto la Giurisprudenza in passato aveva affermato il principio: “nel caso di feto nato morto è ipotizzabile solo il venir meno di una relazione affettiva potenziale (che, cioè, avrebbe potuto instaurarsi, nella misura massima del rapporto genitore figlio, ma che è mancata per effetto del decesso anteriore alla nascita)”.Vi era, dunque, una distinzione tra la morte del neonato, alla quale si riconduceva la perdita di un rapporto parentale “effettivo”, e la morte del feto, alla quale si riconduceva solo la perdita di una “aspettativa” di rapporto parentale. Con l’ordinanza in commento la Corte di Cassazione ha stabilito che il decesso del feto dovuto a malasanità genera un danno risarcibile, equiparabile alla perdita del rapporto parentale. Tanto in ossequio ad un diritto tutelato fin dalla gestazione in base agli articoli 2 e 31 della Costituzione e all’articolo 8 della CEDU.
avv. Rossella Gravina

